Chi mastica un po’ di storia dei droni sa che gli UAS sono stati creati e, dalla seconda guerra mondiale in avanti, sviluppati per scopi militari: nascono quindi come strumenti di distruzione.
In contrapposizione, in questo ultimo decennio, stiamo assistendo ad un sempre maggior utilizzo di droni nel settore umanitario. Sempre più ONG hanno cominciato ad usarli regolarmente ed in campi di intervento sempre più vasti (ne parliamo qui) ed alcune di esse – l’UNICEF per esempio ha avviato un proprio Programma droni – ne hanno consolidato l’utilizzo fino a farli diventare elementi strutturali nella propria Organizzazione. Questi droni sono così diventati indispensabili strumenti di aiuto.
Una delle applicazioni che vogliamo approfondire in questo articolo è l’utilizzo dei droni per lo sminamento di grandi aree. Ad oggi si stima che le mine terrestri inesplose, in quelle parti di mondo che sono stati teatri di guerra, siano oltre 100 milioni. In media, ogni 20 minuti scoppia una mina, calpestata quasi sempre da civili e bambini. Una parte di questi ordigni sono mine in plastica difficilmente rilevabili. Con le tecniche odierne di sminamento, che prevedono l’uso di sminatori a piedi con il metal detector, si è calcolato che ci vorranno non meno di 1100 anni per la bonifica totale del pianeta.
I DRONI PER LO SMINAMENTO
Da qualche anno, alcune ONG attive nella rimozione di mine antiuomo hanno iniziato ad utilizzare stabilmente droni “armati” di termocamere per scovare le mine inesplose sepolte nel terreno.
La ONG francese Handicap International con la partnership di Mobility Robotics ha fatto da apripista avviando il progetto ODISSEY 2025. A settembre 2018 sono stati avviati i primi studi e già a gennaio 2019 sono partiti i primi test sul campo in Ciad. Il territorio bonificato si trova nell’area desertica settentrionale di Faya Largeau, non lontano dal confine con la Libia, il paese contro cui ha combattuto una lunga guerra civile a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta e che come conseguenza ha reso il Ciad tra i paesi più inquinati di mine antiuomo. In 1 anno la ONG, grazie ai droni, è riuscita a localizzare e neutralizzare più di un migliaio di mine.
Nella prima fase di ricerca di mine antiuomo viene utilizzato un drone dotato di telecamera con uno zoom ottico per fotografare l’area dall’alto e creare così una mappa quanto più ricca di informazioni possibile. Si cercano ad esempio prove di esplosioni già avvenute in passato, come crateri, carcasse di animali o di veicoli oltre ad individuare eventuali ordigni inesplosi visibili in superficie.
La seconda fase è svolta da un drone equipaggiato con una termocamera in grado di localizzare anche le mine sepolte sotto terra. I componenti chimici contenuti nelle cariche esplosive causano un leggero aumento di temperatura nella sabbia che viene individuata dal sensore della termocamera che registra un’anomalia del terreno esattamente sopra la mina. Utilizzando i droni è possibile individuare mine antiuomo volando ad un altezza di 30 metri, mentre per le mine anticarro addirittura a 80 metri.
Nel 1988, due ex ufficiali dell’esercito britannico Colin Mitchell e Guy Willoughby insieme a sua moglie Susan Mitchell OBE assistono in prima persona alla devastazione causata dalle mine antiuomo lasciate dalle truppe sovietiche in ritirata dall’Afghanistan. Dopo aver visto migliaia di civili, molti dei quali bambini, dilaniati dalle mine decidono di fare qualcosa. Nasce così, lì a Kabul, quella che in pochi anni diventerà l’ONG più importante nell’ambito della bonifica dei campi minati: Halo Trust. Oggi l’organizzazione conta quasi novemila dipendenti ed è attiva in tutto il mondo. Dal 1994 è presente anche in Angola, uno tra i paesi africani più inquinati dalle mine, si stima ve ne siano tra i 10 e i 20 milioni, retaggio di una guerra civile durata ben 27 anni. Mine che hanno distrutto l’economia del paese, impedendo di coltivare la maggior parte delle zone fertili e contribuendo a fare dell’Angola una delle nazioni più povere del mondo.
In questi ultimi mesi Halo Trust ha avviato, in collaborazione con il governo angolano, un progetto per la bonifica di una delle aree faunistiche più vaste dell’Africa: la Kavango-Zambesi.
Il Delta dell’Okavango, in Botswana, è il secondo più grande delta fluviale interno del mondo e rappresenta uno degli ecosistemi più insoliti del pianeta. Il fiume Okavango nasce in Angola, scorre attraverso la Caprivi Strip in Namibia e dopo un percorso di oltre 1600 Km raggiunge la sua foce in Botswana. Non avendo uno sbocco naturale sul mare il fiume scarica l’acqua direttamente nella sabbia creando una complessa rete di canali, lagune e isole: una vera e propria oasi naturale ai bordi del deserto. Questo ambiente straordinario è la principale fonte di acqua e sostentamento per oltre un milione di persone, migliaia di specie animali e ospita la più grande popolazione di elefanti rimasta al mondo.
La foce dell’Okavango in Angola invece è il campo minato più lungo dell’Africa e, a quasi 20 anni dalla fine del conflitto (2002), le mine antiuomo continuano ad uccidere e ferire quotidianamente migliaia di persone.
Oltre a ciò, la presenza di queste mine impedisce da decenni la rotta migratoria naturale agli elefanti che dal Botswana non riescono più a fare ritorno al proprio habitat nativo angolano. Prima della guerra, l’Angola contava una popolazione di oltre 100.000 elefanti, oggi si stima ve ne siano rimasti meno di 3.500. Il Botswana al contrario ne è letteralmente invaso con oltre 130.000 pachidermi di cui decine di migliaia originari dell’Angola. La perdita di questi antichi percorsi ha costretto gli animali in aree sempre più congestionate e negli ultimi anni il loro sovrappopolamento ha iniziato a creare grossi problemi agli agricoltori locali che lamentano, sempre più spesso, la perdita di interi raccolti a causa dell’irruzione di gruppi di elefanti affamati nei campi coltivati.
Le bonifiche coordinate da Halo Trust, riguardano un percorso di 16 chilometri, in Angola del sud, lungo la riserva Kavango-Zambesi ed hanno l’obiettivo di creare un corridoio libero dalle mine per consentire agli elefanti bloccati in Botswana di fare ritorno nel loro habitat nativo in Angola.
Il progetto prevede l’utilizzo di una flotta di droni dotati sia di termocamere in grado di rilevare la variazione di calore prodotta dalle mine sepolte nel terreno, sia di droni dotati di tecnologia LIDAR. Il telerilevamento effettuato con un Lidar permette di mappare con estrema precisione la morfologia di un terreno anche in zone coperte da una fitta vegetazione.
Per chi volesse approfondire la conoscenza di una delle ultime terre selvagge e incontaminate del nostro pianeta segnaliamo Into the Okavango un documentario di National Geographic del 2018. Oltre ad essere un documentario naturalistico è soprattutto la storia di un gruppo di esploratori che decide di recarsi alla foce dell’Okavango, in Angola, in una zona ancora inesplorata denominata ‘il buco nero” .
LADY DIANA CONTRO LE MINE ANTIUOMO
Negli anni 90 la principessa Diana è sicuramente la donna più fotografata e seguita del pianeta. Oltre ad essere riconosciuta unanimamente come l’icona di stile più influente degli ultimi 2 decenni è anche un’instancabile figura umanitaria.
Nel gennaio del 1997, accompagnata dalla Croce Rossa britannica, compie un viaggio in Angola per visitare un ospedale e incontrare i sopravvissuti alle mine antiuomo. Il paese è in piena guerra civile e con questo viaggio Diana porta alla ribalta mondiale la questione della messa al bando delle mine antiuomo. Nel periodo in cui compie la sua visita sono in corso negoziati internazionali per avviare il Trattato alla messa al bando delle mine.
Nella provincia di Huambo, Diana si imbatte nel lavoro di Halo Trust. Il video della principessa, con indosso un giubbotto antiproiettile e una visiera protettiva, mentre attraversa una corsia liberata in uno dei campi minati attivi finisce sui telegiornali di tutto il mondo. I suoi appelli, le immagini degli incontri con i sopravvissuti e soprattutto quella camminata in mondovisione stanno per dare la spallata definitiva per la messa al bando delle mine.
La principessa Diana non si ferma, pianifica un tour per visitare altri paesi pesantemente minati tra i quali Vietnam, Cambogia e Kuwait. Ad inizio agosto è in Bosnia per visitare le vittime delle mine e incontrare specialisti della riabilitazione.
Circa 3 settimane dopo, il 31 agosto 1997, muore a Parigi in un incidente d’auto a soli 36 anni. L’esposizione che ha dato alla questione durante le sue visite in Angola e Bosnia e l’ondata emotiva montata dopo la sua morte danno un ulteriore impulso al passaggio del Trattato che in quel momento è in fase di stesura ad Oslo.
Il Trattato sulle mine di Ottawa (noto anche come Trattato per la messa al bando delle mine) viene ratificato da 122 paesi il 3 dicembre 1997, poco più di tre mesi dopo la morte della principessa.
L’Italia, uno dei maggiori produttori di mine antiuomo, vi aderisce 23 aprile 1999.
L’INFAMIA DELLE MINE ANTIUOMO
Come già accennato, il numero di mine inesplose sparse per il mondo è stimato in più di 100 milioni. Se diamo uno sguardo alle statistiche di alcuni paesi i numeri sono agghiaccianti: nel Kurdistan Iracheno, negli anni ’90, si calcolava ci fossero 3 mine per ogni abitante.
Le mine terrestri sono una delle armi più infami che l’uomo abbia inventato. E’ una guerra sul campo che continua anche quando il conflitto vero e proprio è finito. Un esercito composto da milioni di soldatini dormienti che viene lasciato lì, nel paese che si è invaso prima della ritirata, con il solo scopo di ostacolarne la ripresa e la ricostruzione di un’economia dopo la guerra. Un esercito che può rimanere silente anche per decenni fino al momento in cui un povero sventurato non la calpesta e salta per aria.
Le mine vengono posate tatticamente in tutti quei luoghi indispensabili alla vita quotidiana: nei villaggi, nei campi coltivabili e nei pascoli del bestiame, vicino alle sorgenti d’acqua e ai cimiteri.
Generalmente non sono progettate per uccidere, molto dipende dal modello e dal caso, il loro fine ultimo è creare un esercito di mutilati e invalidi, in paesi impegnati a risollevarsi dopo una guerra durata forse decenni, che nella maggior parte dei casi non ha ne i fondi ne le strutture per prendersi cura di loro.
La media odierna è di 20 minuti! Ogni 20 minuti, in qualche parte del mondo scoppia una mina…
Cambiano i paesi, i nomi, il colore della pelle ma la dinamica è sempre la stessa. Il chirurgo di guerra Gino Strada con la sua ONG Emergency ne ha visti e curati a migliaia di feriti da mina. Ne parla in “Pappagalli verdi” un vero e proprio diario di guerra:
C’è chi sta camminando in un prato, chi gioca nel cortile di casa o sta seguendo le capre al pascolo, chi zappa la terra o ne raccoglie i frutti. Poi lo scoppio. Abdurahman ha detto di aver sentito la terra esplodergli dentro. Jabbar ha fatto in tempo a vederlo quel piccolo oggetto color sabbia seminascosto nell’erba, ma ormai era troppo tardi per evitarlo. Djamila ha sentito un clic metallico sotto il piede, e ha avuto una frazione di secondo per pensare, prima che la sua gamba sinistra si disintegrasse. Molti altri, come Esfandyar, non ricordano nulla. Un rumore assordante e sono stati scaraventati a terra, in una strana poltiglia di polvere, sangue e carne bruciata.
Il piede calpesta una placca di gomma e attiva il detonatore, quel piccolo oggetto grande come il tappo di una biro fatto di esplosivo di alta qualità. Quando scoppia, il detonatore fa scoppiare anche tutto il resto dell’esplosivo contenuto nella mina.
Da “Pappagalli Verdi” di Gino Strada
Le mine a esplosione sono il tipo più semplice di mina antiuomo. Sono costruite in plastica, metallo o altri materiali e progettate per detonare su una pressione diretta dall’alto o da una pressione esercitata su un filo attaccato ad un interruttore a strappo. L’esplosione ha la forma di un cono rovesciato che sale verso l’alto e talvolta è in grado di uccidere un uomo anche attraverso la semplice onda d’urto.
Le mine a frammentazione contengono oltre all’esplosivo anche frammenti di metallo come acciaio, piombo e ghisa, o in alcuni casi anche plastica o vetro, destinati a causare le più vaste lesioni possibili: quando esplodono proiettano pezzi di metallo e detriti nelle ferite, causando ustioni gravissime e molto spesso la cecità. Inoltre sono in grado di colpire e ferire gravemente anche individui nelle vicinanze.
Esiste poi anche la versione più potente, si chiamano mine a frammentazione saltante: sono interrate all’interno di una sorta di piccolo mortaio e quando si attivano vengono sparate a circa un metro dal suolo prima di esplodere in modo da colpire in un raggio ancora più ampio.
Per gli abitanti di un territorio minato, questi ordigni possono essere la principale causa di morte ma anche, paradossalmente, una fonte di sostentamento. Le mine contengono materiali, che se recuperati e rivenduti, consentono la sopravvivenza. La Valmara 69 per esempio, una delle mine di fabbricazione italiana più devastanti e diffuse al mondo, contiene un cilindro di alluminio leggero che sul mercato può valere circa 1 dollaro. Disattivare una Valmara 69 però non è affatto semplice: si deve infilare una specie di forcina per capelli in un foro di pochissimi millimetri di diametro. Ma se la forcina per sbaglio dovesse toccare le pareti della mina…
In Afghanistan, durante gli anni della guerra (1979-1989), in seguito all’invasione delle truppe sovietiche, gli ospedali cominciano a riempirsi di bambini. Ne arrivano sempre di più e tutti con le medesime gravi ferite da esplosione al volto e alle mani.
Si viene così a conoscenza di un piccolo cilindro, 10 cm di lunghezza, con delle piccole ali. Queste mine antiuomo di fabbricazione russa Modello PFM-1 non vengono sotterrate ma lanciate a migliaia dagli elicotteri sui villaggi, come se fossero dei volantini pubblicitari. La forma della mina con le due ali laterali serve a farla planare bene. Quando vengono rilasciate non cadono a picco, ma volteggiano proprio come se fossero volantini e si sparpagliano su un territorio molto più vasto. Queste mine non esplodono subito, neanche se le calpesti per sbaglio. Ci vuole un po’ di tempo. Funzionano, manuale tecnico alla mano, per “accumulo successivo di pressione”. Chi le raccoglie, quasi sempre bambini, può portarsele a casa, giocarci, maneggiarle più volte, ci possono volere ore, magari si ha il tempo di mostrarle agli amici che se le passano di mano in mano, fino a che…
La popolazione del posto le ha battezzate “pappagalli verdi” per il loro colore sgargiante. Mine giocattolo studiate per mutilare i bambini.
I DRONI SMINATORI
Il delicato lavoro di sminamento in futuro potrebbe avere un incredibile accelerazione grazie all’intuizione, le idee e soprattutto l’intima necessità di fare qualcosa di giovani e talentuosi ingegneri e creativi che, nel corso di questi ultimi anni, hanno progettato e sviluppato droni in grado di sminare autonomamente, ovvero senza l’ausilio di sminatori umani.
Vi raccontiamo un paio di questi progetti.
Dietro al progetto per lo sminamento Mine Kafon c’è l’esperienza personale vissuta da due fratelli afgani. Massoud e Mahmud Hassani, oggi vivono nei Paesi Bassi, dove arrivarono più di vent’anni fa come rifugiati, ma hanno trascorso la loro infanzia alla periferia di Kabul, in una casa che si affacciava su un campo minato attivo. “C’erano mine terrestri ovunque, persino vicino alla scuola e al parco giochi – racconta Mahmud Hassani – A scuola, oltre ad insegnarci matematica e lingue straniere, eravamo educati a riconoscere le mine antiuomo”.
E in mezzo a questi campi minati giocavano con altri bambini rincorrendosi per far volare giocattoli fatti in casa azionati dal vento. In Afghanistan l’hobby di fabbricare aquiloni e giocattoli a vento da far volare negli spazi aperti è considerato a metà fra uno sport nazionale e una forma d’arte. Il primo progetto elaborato da Massoud Hassani è ispirato proprio a quei giochi d’infanzia.
Il primo prototipo del Mine Kafon Ball, una sorta di soffione antimine, ha visto la luce nel 2011 e due anni dopo è stato avviato un crowfunding sulla piattaforma Kickstarter.
Si tratta di una sfera azionata dal vento, con l’altezza e il peso di un essere umano medio, formata da un nucleo di ferro da cui partono decine di raggi di bambù a basso costo, ciascuno dei quali è coperto da piedini di plastica a forma di disco. Il dispositivo viene fatto rotolare per l’area minata in modo che calpesti il terreno. Quando passa sopra ad una mina la attiva e la fa detonare in sicurezza. Le sospensioni ai piedi della sfera assicurano aderenza e adattabilità al terreno e l’elasticità della struttura consente alla palla di poter far detonare fino a quattro mine prima di diventare inutilizzabile. La Mine Kafon Ball è inoltre dotata di un GPS che ne registra i percorsi seguiti e li rende consultabili online. In questo modo i cittadini hanno una mappa reale di “percorsi sicuri” sempre aggiornata.
L’ultimo progetto dei fratelli Hassani è il Mine Kafon Drone un sistema per lo sminamento che si avvale di 2 droni e di una stazione base per condurre tre operazioni distinte: la mappatura, il rilevamento e la detonazione.
La prima fase viene effettuata dal drone Destiny che ha il compito di sorvolare e identificare le aree pericolose e tramite streaming video in diretta, con una camera ad altissima risoluzione, creare una mappa 3D georeferenziata del settore d’intervento. La seconda e la terza fase vengono effettuate dal vero drone sminatore il Manta.Sulla base delle mappe 3D precedentemente create da Destiny, il drone Manta effettua un primo passaggio trasportando diversi sensori estensibili tra i quali un metal detector e un radar di penetrazione del suolo. I dati raccolti dai sensori vengono subito elaborati per ottenere informazioni precise sulla posizione della mina. Infine l’ultimo passaggio, effettuato sempre con il Manta armato di braccio robotico, prevede il posizionamento di un detonatore sopra la mina per effettuare un’esplosione controllata.
L’obbiettivo finale che si sono prefissati i fratelli Hassani è di eliminare tutte le mine antiuomo dal mondo entro 10 anni.
Il giovanissimo Harhwardhansinh Zala è un vero e proprio maniaco della tecnologia. Armeggia con la robotica sin da quando era solo un bambino. A 10 anni costruisce la sua prima invenzione: un telecomando per azionare tutti gli elettrodomestici della sua casa ad Ahmedabad, in India.
Nel luglio 2015 si imbatte per caso in un video su You Tube sulle vittime delle mine antiuomo in Afghanistan e quelle immagini diventano per lui una vera ossessione. Deve fare qualcosa, vuole trovare un nuovo metodo per accelerare lo sminamento e si immagina di farlo con un drone. Quando inizia a lavorarci ha 12 anni. Mentre sviluppa il primo prototipo che chiama EAGLE A presenta l’idea ad una dozzina di aziende per trovare dei finanziamenti ma senza successo. Sono i genitori, un contabile e una casalinga, che mettono mano ai risparmi della famiglia e gli consentono di proseguire. Fonda la sua azienda Aerobotics7 e quello stesso anno presenta il prototipo ad una fiera nazionale della scienza ad Ahmedabad. Nel corso degli anni continua a sviluppare e implementare il drone, fino al gennaio 2021 quando presenta alle Forze Armate Indiane il settimo e ultimo prototipo EAGLE A7.
EAGLE A7, acronimo di Escort for Attacking on Ground & buried Landmines as Enemy by Aerobotics7, è un drone quadrirotore completamente stampato in 3D. E’ in grado di identificare con un tasso di precisione che si aggira intorno al 91-93% qualsiasi tipo di mina grazie allo sviluppo di una tecnologia di rilevamento multispettrale che identifica mine costruite con qualsiasi materiale: metalliche o plastiche, ordigni inesplosi e ordigni esplosivi improvvisati.
Dopo aver individuato una mina, EAGLE A7 ne segnala la posizione alla Ground Station infine, come ultimo step la fa esplodere in sicurezza utilizzando un piccolo detonatore wireless rilasciato dalla pancia del drone.
L’obiettivo ultimo che si è prefissato Harshwardhansinh Zala è eliminare qualsiasi tipo di ordigno inesploso e ogni singola mina antiuomo dal pianeta.
Oggi il lavoro da fare è ancora enorme e l’invito che vogliamo farvi è di supportare tutte quelle ONG impegnate sul campo. Tenetevi aggiornati, leggete libri su reportage di guerra per comprendere come si vive in un paese sotto assedio e naturalmente seguite il lavoro ed i progressi di questi giovani inventori che stanno tentando di rendere il mondo un posto migliore da abitare.
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